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domenica 11 settembre 2022

Io non mi pento

Teresa De Sio è uno di quei personaggi della musica italiana di cui conosco praticamente solo il nome: come di Claudio Villa, Oscar Carboni o Carla Boni. O no: in realtà c'è una sua canzone che conosco, ed è quella che dà il titolo a questo post.

Riaprendo la casa dove ho vissuto per tanti anni, e poi rimasta disabitata per altrettanti (v. post precedente), di sicuro trovo i dischi ascoltati e riascoltati. E, scorrendoli, perdo il conto degli oh mamma! davvero sono stato capace di comprare questa roba?

Certo che ne sono stato capace. E non so mentire: me li ricordavo tutti, quei dischi, uno per uno.

Ma, come dice la canzone sopra citata, non è giusto pentirsi di ciò che si è amato. Può darsi che quel gruppo adesso sia inascoltabile ma, molti anni fa, fosse davvero valido: un esempio a caso, i Coldplay. Oppure era fuffa fin dall'inizio ma, all'età che avevo, non me ne rendevo conto (e con me un mucchio di gente): che so, gli Europe. Magari era ciò di cui avevo esattamente bisogno a quell'età.

La cosa non vale solo per i gruppi musicali. Vale anche per gli scrittori; in particolare per i giornalisti; parlando di me, nella fattispecie, per Beppe Severgnini.

Lo trovo più simile agli Europe che ai Coldplay: fuffa fin dall'inizio. Eppure l'ho amato. Ne avevo una stima quasi incondizionata, e lo scrivevo anche qui. Ogni giorno seguivo la sua rubrica sul sito del Corriere della Sera dove pubblica, a volte rispondendo, messaggi dei lettori e mi è capitato, qui, di commentare qualcosa. Lo trovavo giustamente moderato - molti lettori di sinistra gli davano del berlusconiano - e ironico. Piaceva a mio padre, insegnante di inglese e affezionatissimo lettore del Corriere, in quanto conoscitore della lingua inglese e del mondo anglosassone; così avevo cominciato a leggerlo e a seguirlo. Andai pure ad ascoltarlo, due volte: a Milano, quando condusse la presentazione di Lunar Park di Bret Easton Ellis - e quando uno spettatore si rivolse allo scrittore californiano dicendogli "io sono gay, e la amo! Anche lei è gay e mi ama?" - e a Padova, quando presentò il suo L'italiano, lezioni semiserie.

Oggi, mi basta vedere la sua faccia in televisione per cambiare canale in tempo zero. Lo trovo l'esempio perfetto della banderuola furba: la persona che ha sempre le parole giuste per piacere ai benpensanti. A coloro che non mettono mai il naso fuori di casa, e fondano la loro opinione sulla narrazione dei mass media. La sua faccia quando, nel Regno Unito, fu chiara la vittoria del leave al referendum sulla Brexit è qualcosa di indescrivibile. Lui era sicuro che avrebbe vinto il remain: ormai gli inglesi sono cosmopoliti, se sono disoccupati a Exeter non vedono l'ora di andare liberamente a Bonn e fare i disoccupati a Bonn.¹ E invece...

Il motivo, per questo cambio di opinione su Beppe Severgnini? Ce n'è più di uno. Ne cito due, giusto per brevità: l'appoggio, nel 2013, alla decisione del Politecnico di Milano di erogare i corsi di laurea magistrale e di dottorato solo in lingua inglese - stiamo scherzando? un cittadino italiano che non ha il diritto di frequentare, in un'istituzione dello Stato italiano, un corso nella lingua ufficiale dello Stato italiano? - e l'appoggio alla buona scuola di Renzi. A Otto e mezzo pare abbia detto: la buona scuola può non piacere, ma Renzi ci ha provato. Provato a fare cosa, di grazia? I più triti luoghi comuni sugli insegnanti, ha avallato: ecco perché il gradimento di coloro che non mettono mai il naso fuori di casa.

Mentre scrivevo questo post, pensavo: ma se l'ho amato, come mi comporterei con Beppe se me lo trovassi di fronte in questo momento? Cosa vincerebbe, tra la stima del passato - ereditata da mio padre, probabilmente - e la disistima del presente?

Probabilmente, lo guarderei come guarderei Joey Tempest degli Europe: ok, mi hai fatto divertire un po', ma il rock è altra cosa.

¹ Lo so, è una citazione da Beppe Grillo: il Beppomonimo, come lo chiamava lui. Che criticava, quando era di moda portarlo in palma di mano. L'ho fatto apposta!

lunedì 9 settembre 2013

Bilinguismo forzato? No, grazie.

Su La 27esima ora, qualche giorno fa, la giornalista Grazia Maria Mottola raccontava della sua amica Lella: costei, partita più che mai decisa a voler far imparare alla figlia l'inglese fin dall'asilo, dopo appena un anno ha ritirato la piccola dalla scuola bilingue.
Vorrei che mia figlia si divertisse in una normale scuola italiana, senza lo stress di dover imparare una seconda lingua e l’incubo di scrivere in due lingue. Meglio un'infanzia facile e serena che la preoccupazione di non superare le elementari.
I commenti al post, in maggioranza, sono assai critici verso tale scelta. Qualcuno parla del solito provincialismo all'italiana, qualcun altro delle mamme iperprotettive, altri ancora della facilità con cui i bambini imparano le lingue.


Capisco le ragioni di queste critiche. Incontriamo sempre più di frequente ragazzi i quali, grazie alla diversa provenienza dei genitori, parlano due lingue fin dalla fanciullezza. Lingue che, con nonni o zii provenienti da altre nazioni ancora, possono diventare tre o addirittura quattro; ed è superfluo elencare i vantaggi che il plurilinguismo ha loro recato all'università o al lavoro: specialmente se una delle lingue materne è l'inglese.
Sulle riviste specializzate, ma anche sui quotidiani e sui siti dedicati all'educazione dei fanciulli, non si conta più il numero di articoli inneggianti al plurilinguismo.

È ovvio, pertanto, che le neo-mamme e i neo-papà, i quali magari con l'inglese hanno dovuto battagliare, desiderino dare ai loro figli le medesime opportunità dei ragazzi bilingui. Io stesso mi ritengo fortunato, avendo avuto un padre insegnante di inglese.

Tuttavia, io do ragione alla signora Lella, nel non voler far frequentare alla figlia la scuola bilingue. E le motivazioni sono tre.
  • La prima motivazione è socio-linguistica. Premetto che la realtà a cui penso è quella di una tradizionale famiglia italiana - che, nonostante tutto, è ancora il caso più frequente - che vive in una città italiana e con una rete di amicizie prevalentemente italiana, o quantomeno italofona.
    In un tale contesto, a pochi viene in mente che il bambino già cresce bilingue: con l'italiano e il dialetto della sua regione.
    Perché, giustamente, queste sono le lingue che sente in famiglia, a scuola e con gli amici. Lo stesso modo in cui cresce un bambino bilingue di due lingue "ufficiali" .
    Ma se mio figlio ha una famiglia italiana e amici italiani, o quantomeno italofoni, dove pratica l'inglese che sente a scuola? Dovremmo, io e mia moglie, parlargli in inglese? C'è chi lo fa, ma è del tutto innaturale, a mio avviso.
  • La seconda motivazione è psicologica. È vero che i bambini sono "spugne": imparare, per loro, è un gioco; e non si deve avere paura di spiegare loro cose difficili.
    Chi conosce un po' di Noam Chomsky, oltretutto, sa che diversi studi sostengono la sua teoria dell'apprendimento per dimenticanza: il neonato ha, innate, tutte le regole di tutte le possibili grammatiche, e dimentica tutte quelle che non sente. Come ha spiegato Andrea Moro l'anno scorso al Festival della Mente di Sarzana, gli errori grammaticali dei bambini sono regole in altre lingue.
    Entrambe queste considerazioni, ciò nonostante, non giustificano in alcun modo lo sfruttare la natura oltre il dovuto. Io temo che, in perfetta buona fede e con le migliori intenzioni, quei genitori che mandano il figlio alla scuola bilingue facendogli imparare una lingua che non appartiene alla sua nazione, né alla sua regione, né al suo contesto familiare, struca struca siano mossi da invidia, da esibizionismo nonché dal pregiudizio, durissimo a morire, per cui bisogna imparare da piccoli. Le stesse aberrazioni che intasano le classi di pianoforte con fanciulli che non sono minimamente interessati alla musica.
    Se mio figlio manifesterà il desiderio di imparare l'inglese perché vedrà i libri inglesi di mio padre - e miei - o perché vedrà me, o mia moglie, guardare film in inglese; o perché ci sentirà parlare inglese con i nostri amici britannici o americani, lo incoraggerò. Con un po' di energia se necessario, affinché vinca la timidezza o la pigrizia.
    Se sarà incuriosito dalla musica, sentendola in casa o altrove, lo incoraggerò a suonare uno strumento. Ma deve essere un incoraggiamento, appunto, non una forzatura.
    Mio padre sarebbe stato felicissimo di insegnarmi l'inglese, lui che lo parlava meglio degli inglesi - e non lo dico io, gliel'ha detto sir Richard Attenborough. Ma io mi vergognavo, e lui non insistette. E credo sia stato ancora più felice, nel vedermi impararlo da solo. Cominciando a 13 anni. Così come a 28 anni ho imparato il tedesco, e il greco a 31 (*). Come lo psicologo chitarrista quarantenne, io sono la prova che si può imparare anche da adulti, quando c'è interesse e voglia.
  • La terza motivazione è ideologica. Viviamo da anni in un Paese dove parlare inglese "fa figo". Un Paese la cui lingua ufficiale, pur mantenendo una solida base strutturale latina, è un colabrodo per le parole inglesi. Un Paese dove non l'insegnamento di una lingua straniera, ma l'insegnamento di quella lingua straniera, è obbligatorio fin dalle elementari. (Che tale insegnamento sia svolto orrendamente, è un altro discorso.) Avete fatto caso che, in tutto il post, ho sempre dato per scontato che la seconda lingua sia l'inglese? Mi sorprenderei già adesso se un bambino a un certo punto non maturasse la convinzione che l'inglese è superiore all'italiano: figuriamoci dovendo parlare, obbligatoriamente, in inglese in Italia! In barba ai principi di eguaglianza e di democrazia linguistica, nei quali io credo fortissimamente e nei quali educherò i miei figli. I miei figli non saranno il cavallo di Troia di coloro che vogliono farci diventare schiavi. O magari lo saranno, e io non potrò farci nulla, ma non potrò negare di aver lottato.
(*) Si noti il chiasmo.

Canzone del giorno: Nina Zilli - Per sempre.

giovedì 4 aprile 2013

I francesi che amo

Storia da Facebook:

Un'amica russa, che parla perfettamente inglese e italiano, incontra un ragazzo che le si rivolge in russo, con un fortissimo accento straniero.
Lei: "Preferisce che parliamo inglese?"
Lui, piccatissimo: "Io sono francese! Non parlo mai inglese!"

Canzone del giorno: Elista - Les hommes ordinaires.

lunedì 28 gennaio 2013

Sul doppiaggio dei film

Film doppiati o in lingua originale?
In linea teorica, anch'io mi schiero con i puristi, e se anziché di cinema si parla di televisione, dalla teoria passo alla pratica. Con i film, ammetto di essere assai più pigro. Forse perché la loro durata è ben superiore a quella di un episodio, e a un certo punto mi rompo.

Non credo, poi, che mi recherei mai al cinema a vedere un film in lingua originale con i sottotitoli: innanzitutto, perché questi ultimi sarebbero in italiano, mentre io voglio che anch'essi siano nella lingua originale, di modo da imparare le pronunce. Se da 6-7 anni la mia pronuncia inglese è migliorata, lo devo principalmente ad aver compiuto questa scelta - meglio: ad aver ascoltato il consiglio di mio papà, insegnante di inglese - con 24, Lost, Criminal Minds e compagnia.

Qualcuno sostiene che il doppiaggio andrebbe totalmente eliminato, perché la traduzione "fa perdere troppo" e perché così gli italiani imparerebbero l'inglese come gli olandesi o i finlandesi. Non è lo scenario che mi auguro, per l'Italia: e restando nell'ambito cinematografico, credo che la gente debba essere libera di scegliere.


Non mi sorprendo, tuttavia, che in un cinema di Roma Django Unchained stia incassando più nella lingua originale, che nella versione doppiata. Da un lato, l'inglese è conosciuto decisamente meglio di dieci anni fa; ma va anche detto che le sale hanno sempre meno spettatori, per cui gli appassionati della lingua originale spiccano di più.

Canzone del giorno: Tiromancino - L'alba di domani.

sabato 11 agosto 2012

In spiaggia all'alba (5) - Alfabeto fonetico internazionale



Al di là di tutte le critiche che gli si possono muovere, l'alfabeto fonetico internazionale (IPA) è fantastico. Ho imparato a leggerlo a 12 anni, con la prima uscita di un corso di inglese allegato ad un quotidiano, in omaggio. Non conosco tutti i simboli, ma vedendone uno capisco dove andare a cercare: e ringrazio gli anonimi wikipedisti che hanno compilato delle ottime pagine per ogni fono.

In ufficio, dietro il computer, ho attaccato la mappa completa dei simboli IPA, in suo onore.

Ovviamente, essendo tanto comodo, non viene usato. Roba da specialisti, dicono gli espertoni. Avete mai visto uno di quei frasari per turisti, o di quei vocabolarietti con un compendio grammaticale? Non ce n'è uno che usi l'IPA, per spiegare le pronunce. Non l'ha usato neanche Beppe Severgnini nelle sue lezioni semiserie di inglese - di inglese, cioè la lingua con più suoni vocalici delle particelle dell'universo. Persino il font standard dei dispositivi Android - il Droid Sans, che per la cronaca è anche il carattere del testo che state leggendo - non contiene i simboli IPA: questo significa che, se non ho un pc di fronte e voglio sapere come si pronuncia una parola, posso attaccarmi.

In compenso, i responsabili della ditta Fi'zi:k, produttrice di selle per biciclette, la sanno lunga. Se qualche appassionato si fosse domandato cosa campeggi sul fondoschiena di Vincenzo Nibali, sappia che non è altro che la trascrizione fonetica della parola francese physique.

Un altro segno della superiorità del ciclismo.

Canzone del giorno: Amy Winehouse - Rehab.

mercoledì 20 giugno 2012

Sei proprio il mio errore di stampa!

Mentre quasi 500 mila penne, stamattina, si affaticano ad immortalare i pensieri forzati di altrettanti diciannovenni, Marco Belpoliti sulla Stampa annuncia l'uscita, in Italia, di un saggio sulla storia dei caratteri tipografici: Just My Type del giornalista britannico Simon Garfield, già pubblicato in patria due anni fa.


Come apertura del suo pezzo, Belpoliti si domanda: sapete in che carattere è scritto l’articolo che ora state leggendo? Probabilmente no. Forse è solo una curiosità, dal momento che nessuno, salvo gli addetti ai lavori, vedono il carattere usato ne La Stampa (il Benton), nel romanzo che state leggendo, sui cartelli stradali o nella pubblicità che avete appena guardato.

Ovviamente, io sono l'eccezione che conferma la regola. Adoro osservare e provare i diversi caratteri tipografici: il mio preferito tra i "con grazie" (serif) è il Baskerville



e tra i "senza grazie" (sans-serif) il Calibri, che ha sostituito lo storico Arial e sta dando qualche colpetto alla corazzata Helvetica. Anche il Droid Sans, il carattere di default sui cellulari Android, mi piace molto, mentre è a sé stante l'Optima, un senza grazie con la grazia di un con grazie.


Detesto, al contrario, il Comic Sans - alla fine degli anni '90 era onnipresente! - e il Computer Modern, il carattere standard di LaTeX, nonostante sia il più ricco e versatile che abbia mai usato. Ma qui c'entra il mio rapporto di amore-odio con LaTeX nonché il suo essere il font in cui è scritta la maggior parte dei manuali scientifici e - soprattutto - le dispense dei professori ;-)

Inutile dire, quindi, che il saggio di Garfield mi interessa moltissimo. Tuttavia, qualcuno mi porti qui Roberta Zuppet, colei che l'ha tradotto in italiano per Ponte alle Grazie.

Il titolo inglese è un bellissimo gioco di parole - just my type, ovvero, proprio il mio tipo (nel senso di persona che ci piace) e proprio il mio carattere tipografico.
Il titolo italiano - Sei proprio il mio typo, ripreso anche da Belpoliti con A ciascuno il suo typo - vorrebbe essere un gioco di parole: peccato, però, che typo in italiano non esista, e che in inglese sia un'abbreviazione per errore tipografico: ossia, sei proprio il mio errore di stampa! Però, chi lo sa, magari se lo dite al vostro prossimo appuntamento galante il vostro typo si eccita e vi propone una notte di fuoco su una rotativa.

Canzone del giorno: Nicki Minaj - Starships.

lunedì 18 giugno 2012

Al Politecnico di Milano contro la discriminazione linguistica degli italiani


Bedaŭrinde mi ne povos esti fizike ĉeestanta, sed mi invitas ĉiun civitanon de Milano kaj la najbaraj urboj, kaj la lernantoj de la Politeknika universitato, partopreni en la protesto kontraŭ lingva diskriminacio antaŭ la mezlernejo, Placo Leonardo Da Vinci, 32, merkredon 20 junio. Tiu universitato, financita de la itala ŝtato, volas malpermesi la itala lingvo: ĉiu kurso estos en angla. Ni ne vendas nian kulturon kaj nian tradicion por pakon de maĉi-gingivo!

Purtroppo non potrò essere presente fisicamente, ma invito tutti i milanesi e dintornesi, nonché gli studenti del Politecnico, a prendere parte alla protesta contro la discriminazione linguistica di fronte all'Istituto, in Piazza Leonardo Da Vinci, 32, mercoledì 20 giugno. Questa università, finanziata dallo Stato italiano, vuole proibire la lingua italiana: tutti i corsi saranno in inglese. Noi non vendiamo la nostra cultura e la nostra tradizione per una stecca di chewing-gum!

L'appello della "Esperanto" Radikala Asocio - Associazione Radicale "Esperanto"

L'evento su Facebook

venerdì 13 aprile 2012

Yessir! Yessir!


Oggi sono particolarmente incazzato, e anche un po' fascista.

Ce l'ho con Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano; con il senato accademico del medesimo istituto e con tutti i loro portaborse che li applaudono, primo su tutti il ministro Profumo. Capre (omaggio a Vittorio Sgarbi), ignoranti e venduti al miglior offerente.

Per decisione degli illustrissimi summenzionati, dal 2014 i corsi di laurea magistrale del Politecnico saranno interamente in lingua inglese.

Ebbene: se già vi stavate preparando il predicozzo sulla realtà dei fatti e sull'inglese ormai lingua internazionale, siete pregati di cambiare blog. Primo: se mi sfidate sull'inglese, sarei capace di rompervi anche la falange del mignolo del piede. Secondo: non ho voglia di discutere con voi. Non oggi.

La lingua italiana è una delle più amate al mondo. Non c'è un solo straniero - e ne ho conosciuti tanti, credetemi - che non la senta come musica. E noi che facciamo? Arriva uno con un lieve accento britannico, e noi yessir! yessir! ai spikke perrefeccheteli inglisce, sir!
Molti stranieri che arrivano in Italia, e che frequentano ambienti accademici, non imparano mai l'italiano, perché tutti si rivolgono loro in inglese.

Accusiamo di snobismo i francesi perché traducono tutto (gli spagnoli no però: chissà come mai), e nel frattempo buttiamo nel cesso la nostra lingua, figlia di una delle civiltà più gloriose di tutta la storia dell'umanità, in favore di parole inglesi che magari non hanno nemmeno il significato che noi crediamo. C'è gente che si sente figa a dire skill anziché abilità. Non so se siano più insopportabili loro o gli ex classicisti che ti sommergono di parole latine, o meglio ancora greche, per metterti a tacere.

C'è chi dice che la scienza è un linguaggio universale, che si serve di una lingua solo per essere compresa dagli uomini. Balle. Se fosse vero, tutte le pubblicazioni partirebbero alla pari e sarebbero giudicate solo in base al contenuto. Al contrario, come denunciato da Gianluigi Beccaria sabato scorso su Tuttolibri, solo la lingua rende una pubblicazione in inglese degna di maggiore considerazione rispetto a una in italiano.

Non è in discussione la necessità di imparare l'inglese. È vero, la quasi totalità della letteratura scientifica è in inglese. Ma se io, docente, devo insegnare una materia in italiano, faccio lo sforzo di trovare le parole giuste. Arricchisco il mio vocabolario e lo faccio arricchire ai miei studenti. Questa decisione del Politecnico di Milano, che a quanto pare è adottata anche da altri istituti, stabilisce che l'italiano non è adatto a parlare di scienza. In barba a de Saussure, e alla potenzialità di qualsiasi lingua, intesa come sistema composto da una morfosintassi, uno spazio fonologico e un vocabolario, di esprimere qualsiasi concetto.

Le lingue muoiono quando i parlanti si sentono degradati ad usarle. La cultura di un popolo è veicolata dalla sua lingua. Muore la lingua, muore anche la cultura. Ha ragione chi dice che, per immergersi veramente nel pensiero classico, occorre conoscerne le lingue. Non ditemi che la cultura è ormai cosmopolita, lo so già. Ma la ricchezza di una cultura globale sta nella sua pluralità, come un disegno multicolore.

Ma l'italiano, c'è qualcuno che veramente lo ama? Meglio: l'Italia, c'è qualcuno che veramente la ama?
Mi consolano, per ora, il 55% e il 60% di contrari all'insegnamento in inglese sui sondaggi rispettivamente di Sole 24 Ore e Stampa. Ma rispondetemi anche voi; significativamente prima degli Europei di calcio, grazie.

Canzone del giorno: David Guetta feat. Sia - Titanium.

giovedì 16 febbraio 2012

Idoneità di inglese


Ai tempi della mia fissazione per il tedesco, la mia amica Michelle, studentessa di traduzione e interpretariato, accettava di buon grado le mie chat in tedesco; nondimeno, in vista di un'eventuale conversazione dal vivo, mi avvertì di essere molto severa nei confronti degli errori nell'idioma di Einstein.

Per quanto io non fossi molto felice della sua scarsa fiducia nelle mie capacità - presto dovette ricredersi - capivo le sue ragioni. E ancor di più le capisco adesso.

Nei seminari che si tengono al mio dipartimento - come in tutti i dipartimenti italiani, presumo - vige la prassi secondo cui se anche uno solo dei presenti non capisce l'italiano, l'intero seminario si svolge in inglese. E io non posso oppormi affermando di non capire l'inglese, e rivendicando il diritto di seguire il seminario nella lingua del Paese dove sono nato e cresciuto e dove ha sede la mia università: sia durante il corso di laurea, sia all'esame d'ammissione al dottorato, è stata ufficialmente accertata la mia conoscenza della lingua inglese.

Ufficialmente, per l'appunto.
L'idoneità di inglese, all'università, consisteva di quattro serie di domande a risposta multipla più una composizione di almeno 150 parole. La prova si svolgeva al computer, per cui non era possibile sforare l'ora di tempo a disposizione. Io, con il mio perfezionismo da figlio di insegnante di lingue, perdo tempo nelle domande, e mi rimane il tempo per scrivere appena due frasi; quando chiamo mio papà, uscito dall'aula, lui mi evidenzia subito un errore.
Disperato, ero convinto che mi avrebbero bocciato: proprio me, dopo pure tre stagioni di 24, due di Lost, e una breve conversazione con Joe R. Lansdale. Il risultato: 94/100, e davanti a me solo un 95.

All'esame di ammissione al dottorato, poi, parliamone: ciò che era denominato accertamento della conoscenza dell'inglese era la lettura ad alta voce e la traduzione di una frase da un testo di cosmologia.

Per quanto io non abbia fatto delle lingue la mia professione, l'inglese per me è ben di più - anzi, totalmente altro - che una voce da mettere sul curriculum. Fino a che punto mi abbia influenzato papà, non lo so. Che sia stato abituato troppo bene, non lo discuto. Ma sta di fatto che non sopporto sentir parlare l'inglese male.
Anzi, no. Mi correggo seduta stante. Non dovrei sopportare nemmeno me stesso, visto che commetto errori a tutto spiano. Chi non sopporto sono coloro che sostengono di conoscerlo, e poi mi tirano fuori perle come can I wash my mains? o lo pronunciano come Nando da Torpignattara.

Ovviamente, però, i Nandi da Torpignattara con le mains sporch sono più numerosi dei figli degli anglisti. Al tempo della tesi, quando collaboravo con una ricercatrice di Belgrado, io ero l'unico, in tutto il gruppo, che le si rivolgeva in italiano: lingua che lei, oltretutto, era felice di imparare.

Io capisco che, se a tenere un seminario è uno straniero, magari in visita per pochi giorni, costui debba poter parlare inglese - visto che comunque, volenti o nolenti, al momento è questa la lingua internazionale della scienza. Oppure, se al seminario sono presenti scienziati da tanti Paesi diversi.
Ma che la presenza di uno straniero, il quale magari non è nemmeno un visitatore occasionale, debba costringere tutti a parlare (male) inglese no, la mia testolina non ci arriva. Non arriva nemmeno a capire perché il summenzionato non-visitatore occasionale non possa fare un minimo sforzo per imparare due frasi della lingua del Paese del quale è ospite. È un dovere morale, io credo.
E il seminario? Basta che i lucidi siano in inglese - e 9 volte su 10 lo sono - o che lo speaker fornisca le referenze ai lavori pubblicati.

Chiedo troppo?

Canzone del giorno: Samuele Bersani - Un pallone.

giovedì 9 febbraio 2012

Lattice Boltzmann Equation

  • The reader acquainted with modern statistical mechanics surely smells the sweet scent of universality;
  • conditio sine qua non;
  • In this chapter we shall take a walk into the Jurassic's of Lattice Boltzmann Equation.
E ora la domanda: di quale nazionalità è l'autore del testo?

Canzone del giorno: Ddg - Dig It.

martedì 24 maggio 2011

Scrivere ogni giorno

Ma il motivo per cui avevo cominciato a parlare delle Note azzurre di Carlo Dossi, prima di perdermi nel delirio grecista, era perché da lui dovrei prendere esempio, scrivendo qualcosa, anche una minchiata, ogni giorno. Fa bene, soprattutto in momenti come quello che sto vivendo - e che sta vivendo una mia carissima amica. Ci vorrà un po' prima che recuperi la wit dei tempi migliori; e considerato che si tratta di una di quelle parole inglesi che non riesco a tradurre in italiano, la strada sarà ancora più difficile.
E considerato anche che proprio del libro di Carlo Dossi avevamo parlato io e papà, per l'ultima o la penultima volta; della fregatura, per me che non conosco il greco, per le parole o frasi in greco senza traduzione; del fatto che, pur avendo meno di zero ripensamenti sulla scuola scelta, mi dispiace non conoscerlo, vista la mia passione per le lingue.
Ce l'ho qua davanti, in ufficio. Riesco a prenderlo in mano senza problemi. Ma la sua wit mi divertirà fra un po'.

Canzone del giorno: Young Knives - Human Again.

venerdì 20 maggio 2011

Who passes faster?

Tornare a leggere e parlare in inglese dopo aver avuto un padre del quale Sir Richard Attenborough disse I'm having a conversation with a gentleman who speaks English better than me non è proprio la cosa più semplice. E non solo perché io, per quanto possa migliorare, al massimo ne saprò un decimo di lui.

Ma, in fondo, mio papà passa, l'inglese resta. Anche se ora, nella mia città, lo si sa un po' meno.

Canzone del giorno: George Harrison - My Sweet Lord.

martedì 19 aprile 2011

Obiettivi futuri della fisica

  • messa al bando dell'espressione forza elettromotrice. È un residuo storico e non ha nemmeno una definizione ben precisa. Qualcuno la considera sinonimo della differenza di potenziale; per qualcun altro è la differenza di potenziale a circuito aperto; per qualcun altro ancora è la circuitazione del campo elettrico. In ogni caso, non è una forza (si misura in volt, e non in newton) - mantenere l'espressione ha lo stesso senso che avrebbe mantenere forza viva (la vecchia denominazione dell'energia cinetica);
  • messa al bando delle espressioni potenza/braccio di potenza, resistenza/braccio di resistenza, parlando di leve. Andate voi a spiegare che, in questo caso, potenza e resistenza sono forze;
  • messa al bando delle pronunce inglesi delle lettere greche. Appena sento un pài (π), uno psài (ψ) o un kài (χ) mi viene voglia di mollare tutto con un pernacchione. β o va letto beta, come nella pronuncia erasmiana del greco antico, o vita come in greco moderno. Bita non è solo filologicamente privo di senso, è proprio un obbrobrio;
  • messa al bando della parola punto, al posto di virgola, quando si leggono - in italiano - numeri con cifre decimali. L'alternativa a virgola è e: 10,49 può essere letto dieci virgola quarantanove o dieci e quarantanove. Dieci punto quarantanove non è italiano: il separatore decimale, in tutta Europa (esclusi Regno Unito e Irlanda), così come nel Sud America e altri Paesi come il Sud Africa, è la virgola. Capisco che il 17 marzo è passato, e ormai non è più di moda andare fieri di essere italiani, ma le regole non si inventano.
Canzone del giorno: The Coral - Butterfly House.

P.S.: 10,49 , in g/cm3, è la densità dell'argento.

martedì 5 aprile 2011

Reminder

  • so that regge sempre uno should o un could;
  • gli avverbi di modo vanno sempre messi dopo l'oggetto.
Canzone del giorno: Staind - Outside.