mercoledì 6 giugno 2012

"Ma questo ce lo chiederà?"


Da Voi siete qui di Enrico Manera, su doppiozero.com:
Le tendenze ad oggettivare, misurare e produrre percorsi standardizzati che caratterizza le istanze pedagogiche generali mal si conciliano con il tradizionalismo retorico nei contenuti e nelle forme, appena screziato di falsa innovazione, che i programmi ministeriali continuano a produrre nella scuola superiore. Si tratta di logiche insensate che non aiutano gli individui a crescere e autodeterminarsi ma promuovono un insegnamento inteso come addestramento a superare esami, con prove a trabocchetto. L'intero sistema è perverso nel momento in cui i voti contano poi realmente (anche se noi insistiamo che non si studia per il voto) e i test per l'ingresso ai corsi di laurea paiono inidonei alla selezione, per non dire assurdi e insensati, fondati sul nozionismo e sulla scelta multipla. Sotto la patina umanistica dell' "imparare a imparare" che innerva la mission dei nostri P.o.f. (il famigerato Piano di offerta formativa secondo la neolingua ministeriale), il movimento cognitivo paradossalmente insegnato avviene strategicamente attorno alla dicotomia 'questo serve/non serve', che i ragazzi colgono immediatamente nell'economia del loro tempo-studio. Mi capita spesso di venire interrotto durante la lezione da una mano alzata che chiede: "ma questo ce lo chiederà?". Lascio immaginare quanto questo sia avvilente per gli insegnanti, il cui obiettivo è costruire relazioni con soggetti in formazione attraverso la mediazione di contenuti intellettuali e insegnare qualcosa come la gratuità del sapere, se non la felicità della curiosità teoretica.
La domanda, per l'autore - insegnante di scuola superiore - è molto seria. Come pensa di conciliare il desiderio di insegnare la gratuità del sapere con il sistema scolastico, o meglio, con la cultura della scuola, che da sempre - non solo da quando esistono i test d'ammissione - è basata sul voto?

Il ritornello questo serve/non serve, questo ce lo chiede/non ce lo chiede all'esame era ripetuto ogni giorno, quando andavo a scuola io e sicuramente anche quando andavano a scuola i miei genitori. E non vedo come potrebbe essere altrimenti, e non solo per chi viene da una famiglia dove c'era l'ossessione per il primo della classe, dove ad ogni inizio di vacanze estive le ultime generazioni dovevano recitare le loro pagelle di fronte al severo affetto di genitori, zii e nonni.

Il ritornello questo serve/non serve, questo ce lo chiede/non ce lo chiede all'esame è insito nella logica della scuola, del pezzo di carta che ti certifica ciò che sai, del programma ministeriale da rispettare, dell'antologia e delle schede di lettura. È insito nella figura del maestro-Dio, colui che sa tutto e che ti metterà il voto; colui per il quale l'allievo ideale è quello che ti ripete la lezione a memoria. È insito nella logica che considera normale la dipendenza da quattro giorni di prove dell'esito di un percorso di cinque anni.

Conosco le obiezioni: gli insegnanti ridotti a macchiette, impotenti di fronte a presidi, genitori e ricorsi al Tar, il livellamento verso il basso della qualità dell'insegnamento. Ma anche questo è un sottoprodotto della logica di cui sopra. Se ciò che tu, Stato, mi dai, è un pezzo di carta, perché io, allievo o genitore del medesimo, non dovrei considerarlo come tale?

E conosco anche l'altra obiezione: io ho avuto insegnanti meravigliosi, che mi hanno fatto amare Newton e Cauchy (e basta co' 'sti Catullo e Foscolo!). Voglio sentire 10, 100, 1000 di queste obiezioni. E presto voglio esserne l'oggetto.

Musica del giorno: Béla Bartók - Quartetto per archi n. 2.

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