Un tempo facevo la parte del vecchio saggio:
non preoccupatevi, è solo un esame, poi ci riderete su.
Ora, con l'età che avanza più velocemente della saggezza, sono più io ad immedesimarmi in loro.
L'estate che (astronomicamente) inizia oggi alle 7.16 di sera è ormai la quattordicesima, dopo il mio diploma di
maturità scientifica. L'esame era alla vecchia maniera: commissione tutta esterna ad eccezione di un interno, due scritti e orale su due materie. Più facile, almeno sulla carta, della formula attuale, ma l'ansia era la stessa.
Al liceo non ero
un po' secchione: ero un
secchione hors catégorie; come le salite leggendarie del Tour de France; come il Mont Ventoux, tanto caro a Petrarca come a Eros Poli (io preferisco quest'ultimo).
Non versavo il sangue sui libri e avevo numerosi interessi al di fuori delle materie di studio; ma tenevo molto a fare bene. I bei voti erano un motivo d'orgoglio, principalmente perché venivano da professori che io per primo stimavo; e poi - lo ammetto - erano una forma di rivincita su coloro che, per anni, mi avevano preso in giro per la mia ingenuità e imbranataggine.
Giunto all'ultimo anno, nonostante la mia media fosse la migliore della classe e tutta la mia famiglia, i miei amici, i miei compagni... lo dessero praticamente per scontato, non credevo di poter ambire al voto massimo - che allora era 60. La previsione era confermata dal mio insegnante di italiano, non essendo io troppo brillante nei
temi.
Tutto il mio nervosismo era concentrato sulla prima prova. Mi ripetevo, a ciclo continuo:
io non capisco niente di politica né di grandi problematiche mondiali, e non ho nemmeno fantasia; cosa potrò scrivere, in un tema di attualità, che non sia un luogo comune? l'unica mia speranza è il tema di letteratura, ma non è che l'abbia studiata così approfonditamente! finirò per consegnare in bianco e sarò cacciato dalla scuola con disonore: me lo sento!
Tuttora invidio chi (la maggioranza) è tranquillo alla vigilia del compito di italiano. So che è strano, ma ero letteramente terrorizzato alla prospettiva di non avere la minima idea di cosa scrivere.
Della prova di matematica, invece, non avevo alcuna paura: l'unica altra paura era che la commissione mi scegliesse, per la seconda prova orale, una materia diversa dalla mia preferita.
Il colloquio, a parte la normale tensione al momento di parlare inglese - ah, avessi ora 19 anni, quando i telefilm si vedono in lingua originale! - filò liscio; e quando mi furono mostrati gli scritti corretti, cominciai a credere sul serio nella possibilità dei sessanta sessantesimi. Il mio tema - avevo scelto la traccia letteraria, ovviamente - era piaciuto molto al commissario di italiano, e in matematica non avevo sbagliato una virgola. I miei compagni ancora ricordano le mani aperte della giovane commissaria di matematica, che indicava al presidente
"dieci!!!"
Poche settimane prima di morire, mio papà mi disse che, nel mio liceo, dove lui ha insegnato fino all'anno scorso, è ancora il mio l'ultimo compito di matematica risolto per intero e senza errori.
Era il 7 luglio 1997. Quel pomeriggio andai in parrocchia: era periodo di
grest. E in tutti i giorni che restavano mi divertii come mai mi ero divertito, a fare l'animatore.
Infine, i voti.
Cinquantotto.
E tutto perché - l'avremmo saputo dal commissario interno - il professore di inglese si impuntò a non voler dare più di 8.
So che molti avrebbero messo non una, ma cento firme per un voto del genere, ma per me fu nient'altro che una presa in giro.
E quanto mi bruciarono le parole del mio insegnante di italiano:
meglio un 58 meritato che un 60 regalato. Voleva dirmi che un 60 sarebbe stato regalato? Che il suo collega nella mia commissione dispensava voti alti come noccioline?
Niente di tutto questo, anzi: lui mi voleva (e mi vuole) un gran bene; ma quanto avrei impiegato per capirlo...
E vai a raccontare la storia in litania a tutti i conoscenti che cadevano dalle nuvole:
come? non ti hanno dato 60? ma perché?
Mi consolava giusto il fatto che nessuno l'avesse preso e che, con un po' di oscillazioni, le proporzioni si fossero grosso modo mantenute. Ma avrei impiegato un bel po' ad accettare la cosa. Avrei preso quattro 30 filati al primo anno di università - con una lode nello spauracchio Analisi I - ma io non volevo un qualunque massimo dei voti. Io volevo
quel massimo dei voti.
Non è un caso che, ogni anno, io mi cimenti nella risoluzione degli esercizi d'esame. Ora è solo una tradizione, ma in prima battuta c'era sicuramente un desiderio di rivalsa postuma. Un paio di volte mi cimentai anche nella traduzione della versione di
latino per il liceo classico, come a dire:
avrei potuto prendere anche la maturità classica!
Per questo volli con tutte le mie forze il
110 alla laurea. Lo dissi anche al mio relatore:
ho già detto troppe parolacce alla maturità. In certi momenti preferirei non essere tanto bravo: se sapessi di non poter ambire al massimo, mi accontenterei del mio e me la spasserei per bene. Come mi comporto in altri ambiti.
Non passa estate che io non senta di ingiustizie agli esami di Stato. Del compagno leccapiedi che prende più di quello che si è fatto il mazzo per cinque anni. Del bimbominkia che scrive
o dormito senza H e prende 100; di quello che fa teatro e organizza cineforum che viene visto come un eccentrico fannullone.
Nondimeno, non è necessariamente un male che ci siano persone che non sono le prime della classe ma che hanno decine di interessi culturali - e viceversa.
Fa rabbia quando si vedono perfetti deficienti che portano a casa voti migliori dei nostri, ma in fin dei conti è l'ennesima riprova che il valore di una persona è troppo grande per essere misurato!
Canzone del giorno: Morning Parade -
On Your Shoulders.