Forse è banale dire di aver apprezzato Scritti sui banchi; l'italiano a scuola tra alunni e insegnanti, un'indagine ad ampio spettro dell'attuale situazione dell'italiano scritto, e del suo insegnamento, nelle scuole superiori dello Stivale, perché i due autori non hanno ceduto alla tentazione del florilegio di castronerie. Ma lo dico lo stesso.
Il florilegio di castronerie - e di luoghi comuni - non me lo sarei aspettato, d'altra parte, quantomeno da Luca Serianni, italianista, accademico dei Lincei e autore di diversi saggi sull'insegnamento dell'italiano a scuola. Grazie a lui, d'ora in poi userò più spesso la parola menda; e anche se insegno materie scientifiche, anch'io userò la matita verde accanto a quella rossa e blu, per evidenziare le cose buone.
E forse mi contraddico se propongo una tiratina d'orecchie a Giuseppe Benedetti per l'ultimo capitolo del saggio, nel quale costui analizza, nel corso degli anni, i temi di quattro alunni dell'istituto nel quale insegna. Il quadro che ne esce è decisamente troppo roseo, se non altro perché troppo poco significativo è il campione: quattro studenti, seppure non tutti secchioni, di uno dei più prestigiosi licei classici della Capitale. Inoltre, l'autore pare non tenere conto che alcune statistiche sono viziate: per esempio, viene fatto notare che gli alterati (diminutivi, vezzeggiativi...) si riducono drasticamente di numero nel passaggio dal ginnasio al liceo; tuttavia, tra gli alterati dei temi del ginnasio figurano palazzotto e signorotto, chiaramente mutuati dai Promessi Sposi, che si studiano al secondo anno.
In svariati punti del saggio fanno capolino, complice l'età degli autori nonché l'età media degli insegnanti, i dibattiti di alcuni decenni fa contro "l'italiano dei temi" e per un migliore insegnamento della grammatica. Chi è più grande di me può avervi assistito in prima persona; e sarei molto curioso di sapere cosa veramente veniva detto, con quale spirito si partecipava alla discussione.
Ogni tanto, sui quotidiani o sulle riviste, tali polemiche compaiono ancora: ma la sensazione che danno, anche a me che ho "solo" 33 anni, è di scontato, di vecchio. Correggetemi se sbaglio, ma ho l'impressione che quaranta-cinquant'anni fa, quando sempre più ragazzi frequentavano la scuola, ci fosse davvero la volontà di migliorare. Anche perché lavorare nella scuola era relativamente facile.
Oggi, molti insegnanti di lettere sono gli stessi che erano entrati allora, con quarant'anni di esperienza e di disillusione alle spalle; e le nuove leve sono sballottate da una scuola all'altra, da una settimana di supplenza all'altra, con il futuro sempre più precario e politiche scolastiche sempre più scriteriate.
Come si può pretendere di fare della buona didattica, in queste condizioni?
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