Vorrei che mia figlia si divertisse in una normale scuola italiana, senza lo stress di dover imparare una seconda lingua e l’incubo di scrivere in due lingue. Meglio un'infanzia facile e serena che la preoccupazione di non superare le elementari.I commenti al post, in maggioranza, sono assai critici verso tale scelta. Qualcuno parla del solito provincialismo all'italiana, qualcun altro delle mamme iperprotettive, altri ancora della facilità con cui i bambini imparano le lingue.
Capisco le ragioni di queste critiche. Incontriamo sempre più di frequente ragazzi i quali, grazie alla diversa provenienza dei genitori, parlano due lingue fin dalla fanciullezza. Lingue che, con nonni o zii provenienti da altre nazioni ancora, possono diventare tre o addirittura quattro; ed è superfluo elencare i vantaggi che il plurilinguismo ha loro recato all'università o al lavoro: specialmente se una delle lingue materne è l'inglese.
Sulle riviste specializzate, ma anche sui quotidiani e sui siti dedicati all'educazione dei fanciulli, non si conta più il numero di articoli inneggianti al plurilinguismo.
È ovvio, pertanto, che le neo-mamme e i neo-papà, i quali magari con l'inglese hanno dovuto battagliare, desiderino dare ai loro figli le medesime opportunità dei ragazzi bilingui. Io stesso mi ritengo fortunato, avendo avuto un padre insegnante di inglese.
Tuttavia, io do ragione alla signora Lella, nel non voler far frequentare alla figlia la scuola bilingue. E le motivazioni sono tre.
- La prima motivazione è socio-linguistica. Premetto che la realtà a cui penso è quella di una tradizionale famiglia italiana - che, nonostante tutto, è ancora il caso più frequente - che vive in una città italiana e con una rete di amicizie prevalentemente italiana, o quantomeno italofona.
In un tale contesto, a pochi viene in mente che il bambino già cresce bilingue: con l'italiano e il dialetto della sua regione.
Perché, giustamente, queste sono le lingue che sente in famiglia, a scuola e con gli amici. Lo stesso modo in cui cresce un bambino bilingue di due lingue "ufficiali" .
Ma se mio figlio ha una famiglia italiana e amici italiani, o quantomeno italofoni, dove pratica l'inglese che sente a scuola? Dovremmo, io e mia moglie, parlargli in inglese? C'è chi lo fa, ma è del tutto innaturale, a mio avviso. - La seconda motivazione è psicologica. È vero che i bambini sono "spugne": imparare, per loro, è un gioco; e non si deve avere paura di spiegare loro cose difficili.
Chi conosce un po' di Noam Chomsky, oltretutto, sa che diversi studi sostengono la sua teoria dell'apprendimento per dimenticanza: il neonato ha, innate, tutte le regole di tutte le possibili grammatiche, e dimentica tutte quelle che non sente. Come ha spiegato Andrea Moro l'anno scorso al Festival della Mente di Sarzana, gli errori grammaticali dei bambini sono regole in altre lingue.
Entrambe queste considerazioni, ciò nonostante, non giustificano in alcun modo lo sfruttare la natura oltre il dovuto. Io temo che, in perfetta buona fede e con le migliori intenzioni, quei genitori che mandano il figlio alla scuola bilingue facendogli imparare una lingua che non appartiene alla sua nazione, né alla sua regione, né al suo contesto familiare, struca struca siano mossi da invidia, da esibizionismo nonché dal pregiudizio, durissimo a morire, per cui bisogna imparare da piccoli. Le stesse aberrazioni che intasano le classi di pianoforte con fanciulli che non sono minimamente interessati alla musica.
Se mio figlio manifesterà il desiderio di imparare l'inglese perché vedrà i libri inglesi di mio padre - e miei - o perché vedrà me, o mia moglie, guardare film in inglese; o perché ci sentirà parlare inglese con i nostri amici britannici o americani, lo incoraggerò. Con un po' di energia se necessario, affinché vinca la timidezza o la pigrizia.
Se sarà incuriosito dalla musica, sentendola in casa o altrove, lo incoraggerò a suonare uno strumento. Ma deve essere un incoraggiamento, appunto, non una forzatura.
Mio padre sarebbe stato felicissimo di insegnarmi l'inglese, lui che lo parlava meglio degli inglesi - e non lo dico io, gliel'ha detto sir Richard Attenborough. Ma io mi vergognavo, e lui non insistette. E credo sia stato ancora più felice, nel vedermi impararlo da solo. Cominciando a 13 anni. Così come a 28 anni ho imparato il tedesco, e il greco a 31 (*). Come lo psicologo chitarrista quarantenne, io sono la prova che si può imparare anche da adulti, quando c'è interesse e voglia. - La terza motivazione è ideologica. Viviamo da anni in un Paese dove parlare inglese "fa figo". Un Paese la cui lingua ufficiale, pur mantenendo una solida base strutturale latina, è un colabrodo per le parole inglesi. Un Paese dove non l'insegnamento di una lingua straniera, ma l'insegnamento di quella lingua straniera, è obbligatorio fin dalle elementari. (Che tale insegnamento sia svolto orrendamente, è un altro discorso.) Avete fatto caso che, in tutto il post, ho sempre dato per scontato che la seconda lingua sia l'inglese? Mi sorprenderei già adesso se un bambino a un certo punto non maturasse la convinzione che l'inglese è superiore all'italiano: figuriamoci dovendo parlare, obbligatoriamente, in inglese in Italia! In barba ai principi di eguaglianza e di democrazia linguistica, nei quali io credo fortissimamente e nei quali educherò i miei figli. I miei figli non saranno il cavallo di Troia di coloro che vogliono farci diventare schiavi. O magari lo saranno, e io non potrò farci nulla, ma non potrò negare di aver lottato.
Canzone del giorno: Nina Zilli - Per sempre.
Ciao Marco, eccomi da te con vero piacere!
RispondiEliminaLa questione del bilinguismo è un po' controversa:un mio cugino astrofisico che lavora spesso all'estero, ha insegnato alle figlie a parlare l'inglese prima dell'italiano, ora sta passando al tedesco. Un pochino invidio quelle bimbe.
Del resto chiunque può fare un corso d'inglese o francese quando vuole.
Resto però dell'idea che far frequentare duemila corsi a bimbetti che hanno solo voglia di giocare mi sembra inutile
Post molto interessante che lascia spazio a tante considerazioni.
A presto:)))